mercoledì 27 febbraio 2008

Il Cinghiale: Leggende


La forma sanscrita del nome del cinghiale deriva dalla radice var-/vri- che ha il senso di “occultare”. Dalla stessa radice, discende il nome Veruna, aspetto immanifesto della divinità suprema in conoscibile e invincibile.
Vishnu sotto le sembianze di un cinghiale diede origine al presente ciclo facendo emergere la terra dalle acque ed orinandola.

Il pecari figura nell'arte maya, in un periodo in cui è stato addomesticato. Il maiale rappresentava una fonte di sostentamento e nutrimento ed era considerato sacro, come dimostra il trattamento riservato alle sue ossa. I teschi ritrovati negli scavi archeologici erano intagliati con figure umane e di giaguaro. Essendo una specie limitata ad un piccolo angolo degli Stati Uniti, compare in poche leggende americane e viene messo in relazione con i felini, in quanto era una loro preda. Al maiale selvatico veniva attribuita la velocità, il sacrificio di sé e l'allarme, perché se qualcuno lo attaccava, i suoi grugniti avrebbero avvertito gli altri del pericolo.

Il cinghiale ha avuto una grande notorietà nel Vecchio Mondo.

Il suino nero della mitologia egizia era il dio Seth, che si trasformò in cinghiale per scagliare un dardo di fuoco nell' occhio di Horus. Di conseguenza, fu maledetto da Rà e la sua carne venne ritenuta impura.

La concezione secondo cui il maiale era inadatto come cibo per l'uomo, fu adottata dagli ebrei e in seguito dai musulmani. In Siria e Palestina mangiarne era considerato un abominio.

Si dice che il cinghiale abbia travolto a morte sia Atteone, divinità frigia, che quella greca Adone. Il cinghiale, quindi, dispensa giustizia.

La maggior parte del simbolismo del cinghiale viene dai Celti che lo mettevano in relazione con la battaglia e la leadership. Il cinghiale dava forza e coraggio e sognarlo o vederlo in una visione, indicava il guerriero o la guerra. La sua comparsa, ad esempio, ad Isotta preannunciò la prossima morte di Tristano. Le sue setole erano considerate detentrici di un potere innato. In leggenda celtica, Fion calpesta una setola di cinghiale e muore per aver infranto il gaeas (promessa o, in questo caso, proibizione) di cacciare cinghiale. Alla fine, la setola ha più potere di un uomo e il cinghiale anche se indirettamente, dispensa ancora giustizia.
Il Camyx (corno da battaglia) della Scozia e del Galles riportava la figura della testa di un cinghiale e anche gli elmetti e gli scudi spesso recavano questa immagine.

Anche i Vichinghi adoravano il cinghiale per le sue qualità belliche. Era invocato dai guerrieri nordici perché desse loro la forza e la determinazione per vincere. Ad un livello più pratico, era simbolo di salute e prosperità. Era sacro a Freya e Freyr, le due divinità femminile e maschile della fertilità nell'antica Scandinavia.

I Celti attribuivano alla sua pelle qualità curative: se poste su una ferita, ad esempio, l'avrebbero fatta rimarginare. In seguito il maiale domestico divenne simbolo di fecondità e nelle tombe celtiche e in Galles è stato scoperto il corpo di diversi maiali, lasciati come cibo e per assicurarsi che l'anima passasse sana e salva nell'aldilà.

Nella mitologia celtica, Ceridwin, dea dell'ispirazione, era rappresentata dal cinghiale. La vecchia dea assumeva spesso quelle sembianze per avvicinare la gente.
Quindi ci si riferiva ai Druidi come ai maialini e alla dea come alla scrofa bianca.
Nella cultura celtica, i druidi venivano associati al simbolo del cinghiale. Il mito intendeva con ciò significare l’origine prima della loro tradizione: il centro d’irradiamento spirituale posto nell’Isola Bianca, la patria di origine dei Tuatha dé DanannPresso i Celti, cibarsi ritualmente delle carni del cinghiale in occasione della festa del primo dell’anno equivaleva ad assorbire la potenza divina mediante il nutrimento sacrificale, e rappresentava simbolicamente un ritorno all’origine della tradizione: all’Isola Bianca. Il mese dell’edera – dal 30 settembre al 27 ottobre – collegato alla lettera G dell’alfabeto ogamico (gort = edera) era anche il mese del cinghiale e dei banchetti in cui veniva consumata la sua carne.
Significa il ritorno alla pienezza e all’inesauribiltà dell’Essere: il cinghiale di Walhöll, Sahrimnir, pur smembrato, si rigenera continuamente per servire assieme all’idromele di nutrimento ai prescelti.

«Andhrimnir ha cotto, in Eldhrimnir
e bollito Sahrimnir,
il migliore dei cinghiali, ma pochi sanno
di che si nutrono gli eroi»

Ricordiamo a questo proposito che una delle caratteristiche del nutrimento che proviene dall’Isola iperborea è, appunto, l’inesauribilità,caratteristica che riguarda anche la Coppa celtica dell’abbondanza e, poi, il San Graal.
Nell’Edda il cinghiale Gullinbursti (“Setole-d’oro”) o Slídrugtanni (“Zanne-taglienti”) compare in relazione al re dell’età dell’oro, Freyr, di cui tira il carro. L’Ynglinga Saga chiama l’età dell’oro in cui regnò Freyr “pace di Fródi” il cui nome esprime allo stesso tempo “pace” e “saggezza”: due caratteristiche dell’età dell’oro, infatti nell’antico islandese frodr è “saggio” e Fródi è detto «fecondo di pace».
L’età di Freyr-Fródi – sotto il segno del cinghiale – si chiude con l’avvento di Yrsa, “Figlio dell’Orsa” (dal lat. ursa), il re che inaugura il ciclo successivo, sotto il segno dell’orso guerriero. E le dee che girano le macine del mulino cosmico cantano:

«Continuamo a macinare: il figlio di Yrsa
Nipote di Halfdan, si vendicherà di Fródi»

Il cinghiale raffigurato sulle insegne di guerra celtiche o sugli elmi anche presso i Germani, rappresentava la potenza luminosa e protettrice della divinità sull’esercito o sul guerriero. Tacito dice degli Estii, popolazione stanziata presso il Mar Baltico il cui culto s’incentrava su una figura di dea-madre (mater deum):«Portano immagini (formas) di cinghiali come amuleti religiosi che, al posto delle armi e d’ogni altra difesa assicurano protezione al devoto della dea anche in mezzo ai nemici»

Il cinghiale era l’animale araldico di Merlino così come l’orso lo era di Artù. Il nome Arthur deriva infatti dal celtico arthos (greco árktos; cfr. sanscrito arkshas) “orso”. Nennio (inizi sec. IX) traduce il nome di Artù in latino con ursus horribilis.

Nel componimento Kulhwch e Olwen, una delle primissime fonti su Artù, il re è presentato come cacciatore di un cinghiale dal nome Twrch Treyd, o Trwyth (da twrch = porcum). Secondo il testo citato, questa fu la più grande caccia al cinghiale dell’isola e si estese al Galles del Sud ed in Cornovaglia. Twrch Trwyth era un re trasformato in cinghiale.

Nell'Europa successiva all'avvento del cristianesimo, come il cervo rappresentava il bene, il cinghiale era il male. Come animale pagano diventò infatti l'antitesi delle virtù cristiane. Le zanne venivano considerate alla stregua di corna e nel primo Medioevo il cinghiale fu paragonato al diavolo. Nel XIV secolo, Bastardo di Buglione vedeva i cristiani come leoni e i saraceni come cinghiali. Gaston Phoebes, autore del Livre du chase nel XIII secolo, lo considerava l'animale più pericoloso del mondo. Era capace di uccidere un uomo, un cavallo, un leopardo o un leone con un colpo solo. Era spesso l'oggetto della caccia dell' eroe epico. Veniva cacciato nella stessa maniera del cervo, ma reagiva diversamente: aveva una maggior resistenza e minore astuzia. Gli venivano attribuiti spavalderia e orgoglio: mettere all'angolo un cinghiale era considerato come una sfida a duello. La sua bocca repellente ne ha fatto l'emblema del calunniatore e dei pettegolezzi, un' opinione che sembra essersi modificata durante il periodo vittoriano, quando si è affermata la concezione del cinghiale come campione. Le sue armi erano le zanne forti e aguzze.

sabato 23 febbraio 2008

Leggende della quaresima



Durante il periodo di quaresima, votato al digiuno prurificatore, una antica superstizione (fondata su una credenza popolare), voleva che alle ragazze che mangiavano solo insalata (in particolare il radicchio), sarebbe cresciuto il seno.
Esiste dunque una curiosa e incomprensibile origine antica dello stretto rapporto tra la femminità e il digiuno, in cui la finalità estetica sembra predominante sulla razionalità.
Il valore del digiuno quaresimale sembra derivare da una necessità igenico-sanitaria, per purificare cioè il corpo dopo il periodo degli eccessi del carnevale e dell'inverno, in cui, come detto, l'abbondanza di carne e la necessità di proteggersi dal freddo e dalle malattie, spingeva all'iperconsumo di cibi grassi.


Esite poi una leggenda sul perchè la quaresima del calendario ambrosiano inizia qualche giorno dopo rispetto a quella comunemente applicata in tutto il mondo cristiano.

Il Mercoledì delle Ceneri in una chiesa gremita di gente, l’arcivescovo Ambrogio, annunciando solennemente l’inizio della Quaresima, ribadiva con forza: “Inizia da oggi un periodo di meditazione, dovrete fare penitenza, sacrifici, digiuni; in particolare dovrete astenervi dalle feste, dai balli e dal mangiare carne!”. In fondo alla chiesa vi era un pover’uomo, che era sempre vissuto nella miseria; era da tantissimi anni che non assaggiava la carne e, proprio quel giorno, era riuscito a procurarsi un pezzo di trippa, che recava in mano e non vedeva l’ora di poter gustare. Ascoltando quelle parole e interpretandole come direttamente indirizzate a lui, non riuscì a resistere e, con voce rotta dal pianto, esclamò: “ Va bene, ho capito… E’ da quando sono entrato che tutti mi fissano…Questa trippa non la voglio più, la consegno a voi…lo so che son destinato a soffrire la fame!”. S. Ambrogio, impietosito da quelle parole, ordinò così: “Per un atto di carità verso questo pover’uomo che vive nel disagio, stabilisco che, in tutta la diocesi, il carnevale si protragga per altri quattro giorni, affinché egli possa consumare in pace, ciò che tanto desidera. La Quaresima, con tutti i suoi precetti, avrà inizio Domenica prossima!”.

giovedì 21 febbraio 2008

Morte di Giordano Bruno



Andava il triste vento
nella notte
che non sapea colori d'alba.
Così portavano Giordano
a morte,
a guisa di depravato,
di uomo maledetto.


E iil fuoco divampò
ardea la pelle tutta,
poi tutto il corpo.

Salivano le fiamme
terribili, iridescenti,
il fumo già s'alzava
atterrite guardavano le genti


iI viola esplodea dal rosso
(tetri bagliori)
tutto parea scoppiare
così tra guardiani furenti
privi d'ogni pietà
Lucido e senza grido
moriva ucciso
in Campo de'Fiori
in monito ad atre genti.


Godevano i carnefici
di simile spettacolo.
anime perse!
al soldo del potere

Maria Francesca

Giordano bruno: I processi


Il processo veneziano

Le accuse

Dopo una seconda denuncia di Mocenigo, che non aggiunge nulla di nuovo alle accuse già formulate, e gli interrogatori del capitano del Consiglio dei Dieci, Matteo d’Avanzo e dei librai Giovan Battista Ciotti e Giacomo Brictano, il 26 maggio è la volta di Bruno, che racconta del litigio col Mocenigo e inizia a narrare della sua vita, ricordando come fosse stato ordinato frate domenicano e anche di essere stato processato due volte a Napoli dall'Ordine e di aver deposto l'abito; il 29 maggio Mocenigo presenta una terza denuncia, il cui elemento nuovo è che a Bruno «piacevano assai le donne, et che non havea arivato ancora al numero di quelle di Salamone; et che la Chiesa faceva un gran peccato nel far peccato con quello con che si serve così bene alla natura».

Il 30 maggio, nel secondo "costituto", Bruno conclude la narrazione della sua vita, passata in gran parte in Svizzera, Inghilterra e in Germania ove tace particolari compromettenti, come la sua conversione al calvinismo; dopo le tre denunce e i due interrogatori, i capi di accusa a suo carico sono:

1 - avere opinioni contrarie alla fede cattolica

2 - avere opinioni eretiche sulla Trinità, la divinità e l'incarnazione di Cristo

3 - avere opinioni eretiche su Cristo

4 - avere opinioni eretiche sull'eucaristia e la messa

5 - credere nell'esistenza e nell'eternità di più mondi

6 - credere nella metempsicosi

7 - praticare la divinazione e la magia

8 - non credere nella verginità di Maria

9 - essere lussurioso

10 - vivere al modo degli eretici protestanti

La difesa

Nel terzo costituto del 2 giugno, Bruno presenta la lista scritta di tutti le sue opere, difendendosi dalle diverse accuse di eresia con il distinguere la sua attività intellettuale di filosofo, fondata dall'uso della ragione, dalle opinioni che un cristiano deve tenere per fede: «La materia de tutti questi libri, parlando in generale, è materia filosofica et, secondo l'intitulation de detti libri, diversa, come si può veder in essi: nelli quali tutti io sempre ho diffinito filosoficamente et secondo li principii et lume naturale, non havendo riguardo principal a quel che secondo la fede deve essere tenuto; et credo che in essi non si ritrova cosa per la quale possa esser giudicato, che de professo più tosto voglia impugnar la religione che essaltar la filosofia, quantonque molte cose impie fondate nel lume mio naturale possa haver esplicate».

Negato di aver direttamente mai insegnato contro la religione cattolica, ma semmai indirettamente, come avviene insegnando di Aristotele e Platone, che non sono cristiani, riassume con particolare forza la propria cosmologia, tratta dai suoi ultimi libri, De minimo, De monade, De immenso et innumerabilibus e De compositione imaginum: «Et in questi libri particularmente si può veder l'intention mia et quel che ho tenuto; la qual, in somma, è ch'io tengo un infinito universo, cioè effetto della infinita divina potentia, perché io stimavo cosa indegna della divina bontà et potentia che, possendo produr, oltra questo mondo un altro et altri infiniti, producesse un mondo finito. Sì che io ho dechiarato infiniti mondi particulari simili a questo della terra, la quale con Pittagora intendo un astro, simile alla quale è la luna, altri pianeti et altre stelle, le qual sono infinite; et che tutti questi corpi sono mondi et senza numero, li quali constituiscono poi la università infinita in uno spatio infinito; et questo se chiama universo infinito, nel qual sono mondi innumerabili [...]»

«Di più, in questo universo metto una providenza universal, in virtù della quale ogni cosa vive, vegeta et si move et sta nella sua perfettione; et la intendo in due maniere, l'una, nel modo con cui presente è l'anima nel corpo, tutta in tutto et tutta in qual si voglia parte, et questo chiamo natura, ombra e vestigio della divinità; l'altra, nel modo ineffabile col qual Iddio per essentia, presentia et potentia è in tutto e sopra tutto, non come parte, non come anima, ma in modo inesplicabile [...]»

«Quanto poi a quel che appartiene alla fede, non parlando filosoficamente, per venir all'individuo circa le divine persone, quella sapienza et quel figlio della mente, chiamato da' filosofi intelletto e da' theologi Verbo, il qual se deve credere haver preso carne humana, io stando nelli termini della filosofia non l'ho inteso, ma dubitato et con incostante fede tenuto; non già che mi riccordi de haverne mostrato segno in scritto né in ditto [...] Così quanto al Spirito divino per una terza persona, non ho possuto capire secondo il modo che si deve credere; ma secondo il modo pittagorico, conforme a quel modo che mostra Salomone, ho inteso come anima dell'universo, overo assistente all'universo [...]»

«Da questo spirito poi, che è detto vita dell'universo, intendo nella mia filosofia provenire la vita et l'anima a ciascuna cosa che have anima et vita, la qual però intendo essere immortale; come anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione et congregatione [...]».

Dopo una pausa, è ancora interrogato: sul problema della Trinità, sostiene di credere in un Dio distinto in Padre, Figlio e Spirito Santo, ma ammette di non aver potuto capire come essi «possano sortir nome di persone; poiché non mi pareva che questo nome di persona convenisse alla divinità, confortandomi a questo le parole di san Agustino». Anche i suoi dubbi sull'incarnazione di Cristo vengono spiegati attraverso deduzioni filosofiche, «perché tra la substantia infinita et divina, et finita et humana, non è proportione alcuna com'è tra l'anima e il corpo». Nega recisamente di aver dubitato dei miracoli, di aver disprezzato Cristo, gli apostoli, la fede cattolica e i suoi teologi, sostiene di credere nella necessità delle buone opere per ottenere la salvezza, nella transustanziazione e nella bontà della confessione e della messa, anche se ammette di non praticarle da sedici anni, a motivo del suo abbandono dell'abito religioso. Riconosce di aver considerato, per leggerezza e in occasione di discorsi oziosi, veniali i peccati della carne e ammette di aver letto, per sola curiosità, libri di Melantone, di Lutero e di Calvino ma dichiara di disprezzare «li sopradetti heretici et dottrine loro, perché non meritano nome di theologi ma de pedanti».

Sulla questione dell'immortalità delle anime e della loro possibile migrazione da un corpo all'altro, risponde di ritenere che «l'anime siano immortali et che siano substantie subsistente, cioè anime intellettive, et che, catholicamente parlando, non passino da un corpo all'altro, ma vadino o in paradiso o in purgatorio o in inferno; ma ho ben raggionato, et seguendo le raggion filosofiche, che, essendo l'anima subsistente senza il corpo et inexistente nel corpo, possa col medemo modo che è in un corpo essere in un altro, et passar de un corpo in un altro: il che, se non è vero, par almeno verisimile l'opinione di Pitagora».

Il giorno dopo, 3 giugno, ammise di aver trascurato i digiuni, risiedendo in paesi di eretici, solo per non «disgustarli», come di aver ascoltato le loro prediche solo per curiosità, ma di non aver mai celebrato la loro eucaristia. Ammise anche di aver lodato la regina Elisabetta, chiamandola «diva», nel suo libro De la causa, principio et uno, non perché eretica ma per puro vezzo letterario. Negò di aver mai conosciuto Enrico di Navarra né di averlo mai lodato se non per ottenerne favori che gli dessero possibilità di lavoro, com'era avvenuto con il precedente regnante. Negò anche di aver mai praticato arti magiche e nemmeno di possedere libri di tal genere, che dichiarò di disprezzare, soltanto, avrebbe voluto studiare l'«astrologia giudiziaria», ma di non averne avuto mai il tempo. A questo proposito, il giorno dopo Bruno precisò di aver «fatto trascrivere a Padoa un libro De sigillis Hermetis et Ptolomei et altri, nel quale non so se, oltre la divinatione naturale, vi sia alcun'altra cosa dannata; et io l'ho fatto trascrivere per servirmene nella giuditiaria; ma ancor non l'ho letto, et ho procurato d'haverlo, perché Alberto Magno nel suo libro De mineralibus ne fa mentione, et lo loda nel loco dove tratta De imaginibus lapidum».

Il processo sembra essere giunto a un punto morto: i giudici sanno del passato eretico di Bruno e non sembrano convinti della sua sincerità, ma non hanno elementi concreti e sufficienti per giungere a una condanna: il 23 giugno il nobile Andrea Morosini, storico veneziano, che frequentò il filosofo nolano, testimonia che il Bruno mai insegnò dottrine eretiche. Nel settimo e ultimo costituto, il 30 luglio 1592, gli chiedono di «espurgar» la coscienza, dal momento che «l'apostasia de tanti anni» lo rende «molto suspetto della santa fede». Bruno risponde che di aver confessato «li errori miei prontamente, et son qui nelle mani delle Signorie Vostre illustrissime per ricever remedio alla mia salute; del pentimento de' miei mesfatti non potrei dir quanto è, ne esprimere efficacemente, come desiderarei, l'animo mio».

Poi s'inginocchia: «Domando humilmente perdono al Signor Dio et alle Signorie Vostre illustrissime de tutti gli errori da me commessi; et son qui pronto per essequire quanto dalla loro prudentia sarà deliberato et si giudicarà espediente all'anima mia [...] et se dalla misericordia d'Iddio et delle Signorie Vostre illustrissime mi sarà concessa la vita, prometto far riforma notabile della mia vita, ché ricompenserò il scandalo che ho dato con altrettanta edificatione».

Il processo, per l'Inquisizione veneziana, sembra finito per il meglio, ma per quella romana doveva ancora cominciare.

L'estradizione a Roma

Copia degli atti del processo vengono inviati al Tribunale di Roma, come previsto da un decreto del Sant'Uffizio del 18 settembre 1581, e l'inquisitore romano, il cardinale di Santa Severina Giulio Antonio Santorio, chiede formalmente l'estradizione di Giordano Bruno a Roma. La richiesta è respinta dal Senato veneziano il 3 ottobre ma l'insistenza romana, l'intervento del nunzio pontificio Ludovico Taverna, il fatto che Bruno non sia cittadino veneziano e infine la relazione, favorevole all'estradizione, del procuratore Federico Contarini, incaricato dal Collegio di Venezia di valutare il caso, inducono il Senato a concederla il 7 gennaio 1593.

Bruno era il secondo cittadino di Nola ad essere consegnato dal Senato veneziano all'Inquisizione di Roma: nel 1555 fu consegnato il luterano Pomponio de Algerio, che fu bruciato vivo in una caldaia di olio, di pece e di trementina il 19 agosto 1556 in piazza Navona.

Il 19 febbraio una nave sbarca Bruno ad Ancona, in territorio pontificio, e di qui è tradotto a Roma dove il 27 febbraio è incarcerato nel palazzo del Sant'Uffizio. Al 1610 risale una descrizione delle carceri del Palazzo del Sant'Uffizio, nella quale è scritto che «sono le carceri strettissime per i miseri colpevoli di lesa maestà divina, alle quali sono addetti altri ministri [...] chiudendoli separati l'un dall'altro, in alcune piccole e strettisime celle, dalle quali non possono veder altro che aria attraverso finestrelle così basse, che non si possa più, come una volta, parlar loro di lontano».

Una nuova denuncia

Giordano Bruno aveva avuto compagni di cella a Venezia, almeno dal settembre 1592, il frate cappuccino Celestino da Verona, il carmelitano fra' Giulio da Salò, il falegname napoletano Francesco Vaia, un insegnante di Udine, Francesco Graziano, e un certo Matteo de Silvestris, di Orio. Fra' Celestino, già processato per eresia a Roma dall'Inquisizione, aveva abiurato il 17 febbraio 1587; nuovamente incarcerato a Venezia nel settembre 1592, fu rilasciato l'anno dopo. Era probabilmente uno squilibrato: confinato a San Severino, nelle Marche, nel 1599 si autodenunciò all'Inquisizione di Venezia e di Roma, di accuse ritenute talmente gravi, che su di esse fu mantenuto il segreto più assoluto e altrettanto segretamente fu pronunciata la sentenza di morte, finché, quasi nascostamente, di notte, fu bruciato in Campo dei Fiori il 16 settembre 1599, esattamente cinque mesi prima di Giordano Bruno e nello stesso luogo.

Si pensache egli abbia denunciato il filosofo nolano perché ritenne che questi, durante gli interrogatori, lo avesse denunciato di chissà quali colpe. Sta di fatto che egli, alla fine del 1593, presentò denuncia all'Inquisizione veneziana, elencando una serie di gravissime accuse contro il Bruno

«1. Che Cristo peccò mortalmente quando fece l'orazione nell'orto recusando la volontà del Padre [...].

2. Che Cristo non fu posto in croce, ma fu impiccato sopra dui legni [...].

3. Che Cristo è un cane becco fottuto can: diceva che chi governava questo mondo era un traditore, perché non lo sapeva governar bene, ed alzando la mano faceva le fiche al cielo.

4. Non ci è Inferno, e nissuno è dannato di pena eterna, ma che con tempo ognuno si salva [...].

5. Che si trovano più mondi, che tutte le stelle sono mondi, ed il credere che sia solo questo mondo è grandissima ignoranza.

6. Che, morti i corpi, l'anime vanno trasmigrando d'un mondo nell'altro, dei più mondi, e d'un corpo nell'altro.

7. Che Mosè fu mago astutissimo e, per essere nell'arte magica peritissimo, facilmente vinse i maghi di Faraone; e ch'egli finse aver parlato con Dio nel monte Sinai, e che la legge da lui data al popolo Ebreo era da esso imaginata e finta.

8. Che tutti i Profeti sono stati uomini astuti, finti e bugiardi [...].

9. Che il raccomandarsi ai Santi è cosa redicolosa e da non farsi.

10. Che Cain fu uomo da bene, e che meritamente uccise Abel suo fratello, perché era un tristo e carnefice d'animali.

11. Che, se sarà forzato tornar frate di S. Domenico, vuol mandar in aria il monasterio dove si troverà e, ciò fatto, subito vuol tornare in Alemagna o in Inghilterra tra eretici per più comodamente vivere a suo modo ed ivi piantare le sue nuove ed infinite eresie [...].

12. Quel c'ha fatto il breviario, ovvero ordinato, è un brutto cane, becco fottuto, svergognato, e ch'il breviario è come un leuto scordato [...] dovrebbe esser abbrugiato.

13. Che quello che crede la Chiesa, niente si può provare».

L'Inquisizione veneziana effettuò i riscontri della denuncia di fra' Celestino con le testimonianze degli altri compagni di carcere di Bruno, i quali non confermano tutte le accuse del cappuccino; il Graziano, tuttavia, aggiunse un nuovo elemento di accusa, dichiarando che Bruno «non haveva alcuna divotione alle reliquie de' santi, perché si poteva pigliare un braccio di un impiccato fingendo che fosse di santo Hermaiora, e che se le reliquie, che buttò per il fiume e per il mare il re d'Inghilterra fossero state vere havriano fatto miracoli, et in questo proposito ragionava burlando» e che «biasimava l'imagini e diceva ch'era un'idolatria, e se ne burlava con certi gesti brutti e profani».

Esaurite le deposizioni, da Venezia la documentazione fu inviata al Tribunale di Roma: oltre ai dieci capi di imputazione già accertati, risultavano ora altri dodici:

11 - opinioni eretiche su Cristo

12 - opinioni eretiche sull'inferno

13 - opinioni eretiche su Caino e Abele

14 - opinioni eretiche su Mosè

15 - opinioni eretiche sui profeti

16 - negazione dei dogmi della Chiesa

17 - riprovazione del culto dei santi

18 - disprezzo del breviario

19 - blasfemia

20 - intenzioni sovversive contro l'Ordine domenicano

21 - disprezzo delle reliquie dei santi

22 - negazione del culto delle immagini

L'ultima difesa

Alle vecchie e nuove accuse Bruno, dopo aver ammesso di aver qualche volta bestemmiato e aver negato gran parte delle accuse, oppose una serie di precisazioni: non sostenne mai che Cristo fosse stato impiccato, ma di aver discusso della forma della croce cui fu crocefisso; che delle arti magiche di Mosè parlano anche le Scritture; che quello del verso dell'Ariosto era stato un episodio scherzoso di quando era ancora novizio nel convento di Napoli. Scherzosi erano stati gli apprezzamenti su Caino ed Abele dal momento che se questi «amazzando gli animali era tristo, l'altro che aveva animo d'amazzar il fratello non poteva esser se non preggio»; sul problema della metempsicosi precisò di aver sostenuto filosoficamente che l'anima, in quanto immortale, e dunque puro spirito vivente senza un corpo materiale, avrebbe la possibilità, puramente teorica, di penetrare in un qualsiasi corpo.


Interrogato ancora sulla pluralità dei mondi, ribadì che a sua opinione «il mondo e li mondi e l'università di quelli esser generabili e corruttibili, e questo mondo, cioè il globo terrestre, haver havuto principio e poter haver fine; similmente le altre stelle, che sono mondi come questo è mondo o alquanto megliori, o anco alquanto peggiori per possibile, e sono stelle come questa è stella; tutti sono generabili e corruttibili come animali composti di contrarii principi, e così l'intendo in universale, et in particolare creature, e che secondo tutto l'essere dependono da Dio [...] in ciascun mondo dico che necessariamente vi sono li quattro elementi come nella terra [...] quanto agl'huomini, idest creature rationali [...] è da credere che vi siano animali rationali. Quanto poi alla conditione del loro corpo, se è corruttibile come il nostro o no, questo non si conclude per scientia, ma è cosa creduta da Rabini et altri santi nel Testamento nuovo che siano animali per gratia di Dio immortali [...] e san Tomasso dice non esser cosa che faccia scrupolo in fede se gli angeli sono corporei o non, la quale autorità stante, credo mi sia lecito opinare che in quei mondi siano animali rationali et viventi et immortali, quali per consequenza si chiamano più tosto angeli che huomeni e si diffiniscono con li platonici tanto filosofi, quanto christiani teologi nutriti ne la disciplina platonica, animali rationali immortali».

Alla fine del 1594 gli inquisitori concludono la raccolta delle testimonianze e passano gli atti al collegio dei cardinali incaricati di emettere la sentenza. Questi non ritengono però sufficienti gli elementi raccolti, ritenendo di dover esaminare le opere pubblicate da Bruno per penetrare al meglio le sue concezioni. Relativamente pochi sono i libri del Nolano in possesso del Sant'Uffizio, il Cantus Circaeus, il De minimo, il De monade e il De la causa, principio et uno: il papa stesso ordinò di reperire altri libri di Bruno - fu controllata infine anche la Cena delle Ceneri - e in attesa che una commissione di teologi si pronunci sul loro contenuto, la sentanza viene rinviata sine die.

Le censure

Finalmente, dopo più di due anni, il 24 marzo 1597, davanti alla Congregazione dei cardinali Giulio Antonio Santorio, Pedro de Deza Manuel, Domenico Pinelli, Girolamo Bernerio, Paolo Emilio Sfondrati, Camillo Borghese e Pompeo Arrigoni, oltre ad altri commissari, fra i quali il Bellarmino, che sarà nominato cardinale due anni dopo, il Bruno viene interrogato sotto tortura, al termine del quali gli furono consegnate le censure, le contestazioni scritte alle sue opinioni considerate erronee. Gli atti del processo romano sono andati perduti, ma ne resta un Sommario, fatto allora per semplificare agli inquisitori l'esame della complessa mole dei documenti.

La prima censura riguarda la generazione delle cose e i due principi dell’esistenza, l’anima del mondo e la materia prima, individuate nel De causa, principio et uno. Bruno risponde che sono principi eterni a parte post, cioè creati da Dio;

La seconda proposizione censurata è l’affermazione secondo la quale a una causa infinita corrisponde un effetto infinito, che Bruno conferma;

la terza censura riguarda il problema della creazione dell'anima umana: nelle opere bruniane ogni anima individuale si discioglie nell' anima del mondo, ma di fronte all’Inquisizione Bruno – certamente contro la sua intima convinzione - preferisce ammettere un’eccezione per l’anima umana «perché la particolarità del suo essere, che riceve nel corpo, lo ritiene doppo la separatione, a differenza dell’anime de’ bruti, le quali ritornano nell’università del spirito»;

la quarta censura riguarda il principio secondo cui nulla si genera e nulla si corrompe secondo la sostanza, giustificato dal motto biblico «Nihil sub sole novum»: Bruno risponde ripetendo le considerazioni svolte nel suo De la causa, che il genere e la specie delle cose, ossia l’aria, l’acqua, la terra e la luce «non possono essere altro che quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza s’aggionge mai o mancarà ponto alcuno, e solamente accade separatione e congiuntione, o composizione, o divisione, o translatione da questo luogo a quell’altro»;

la quinta censura riguarda il moto della terra e l’adesione di Bruno alla teoria copernicana, contraddicendo le Scritture, che affermano che «la Terra sta in eterno» e «il Sole nasce e tramonta». Il Bruno risponde che il modo e la causa del movimento terrestre sono state da lui dimostrate con «raggioni et autorità, le quali sono certe e non pregiudicano all’autorità della divina scrittura, come ognuno ch’ha buona intelligenza dell’una e dell’altra sarà sforzato anco al fine di ammettere e concedere». Quanto allo stare della Terra, nella Bibbia è riferito al suo esistere nel tempo, non già nel suo essere immobile nel luogo e che il nascere e il tramontare del sole è solo apparente, essendo dovuto alla rotazione terrestre. Quanto all’autorità dei Padri della Chiesa, pur essendo «santi, buoni ed esemplari», essi «sono meno de’ filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura»;

la sesta censura riguarda la definizione, data nella Cena delle ceneri, degli astri come angeli, corpi animati razionali, che lodano Dio e annunciano la sua potenza e grandezza: il Sommario del processo, della risposta del Bruno, riporta soltanto che intendeva dire che gli astri sono annunciatori e interpreti della voce divina e della natura, in questo senso sono angeli sensibili e visibili, diversa cosa dagli altri angeli invisibili;

la settima censura riguarda l'attribuzione alla Terra di un'anima sensitiva e razionale. Secondo Bruno, Dio attribuisce realmente un’anima alla Terra, essendo scritto nel Genesi (I, 24) «Producat terra animam viventem», dal momento che la terra, come costituisce gli animali secondo il corpo, così anima ciascun soggetto con il suo proprio spirito. La razionalità, intrinseca e propria, più che data dall’esterno della Terra, si ricava dalle leggi del suo moto e, come ammettiamo razionalità nell’uomo e anche in esseri a lui inferiori, «molto più degnamente deve trovarsi nella Madre, e non attribuirli un esteriore trudente, spingente, rotante, saepe idem inculcando»;

l'ottava censura è nell'affermazione, fatta nel De la causa, che l'anima sta nel corpo come un nocchiero nella nave, in contrasto con la definizione dogmatica, risalente al concilio di Vienne del 1312, secondo la quale l’anima razionale e intellettiva è forma del corpo umano per sé ed essenzialmente. Bruno risponde che quella è la definizione di Aristotele ma in nessun luogo delle Scritture l’anima è chiamata forma del corpo, bensì è intesa come uno spirito che è nel corpo come abitante nella sua casa, come uomo interiore nell’uomo esteriore, come prigioniera in un carcere, come l’uomo nei suoi vestiti e in altri mille modi.

Si noti come l'Inquisizione abbia trascurato le accuse, più plateali e perfino pittoresche, come quelle eterodosse sui personaggi biblici o sulla blasfemia del Bruno, per concentrarsi sugli elementi fondanti della sua filosofia, nella quale, trasformandosi ogni sostanza - anche l'anima - nell'infinito universo materiale, viene messa in discussione la necessità e il senso dell'esistenza della stessa Chiesa.

L'intimazione all'abiura

Dopo un nuovo lungo rinvio del processo, dovuto alla lontananza da Roma di Clemente VIII, dal 13 aprile al 19 dicembre 1598, il 18 gennaio 1599 la Congregazione intimò a Bruno di abiurare le otto proposizioni entro il termine di sei giorni; il 25 gennaio Bruno presentò uno scritto dichiarando di essere disposto all'abiura, purché si affermasse che tali proposizioni erano dalla Chiesa considerate eretiche soltanto ora, ex nunc, richiesta che - se poteva essere legittima per quanto atteneva alle proposizioni sull'infinità dell'universo e sul movimento della Terra - palesemente non poteva essere accolta per i temi riguardanti la concezione della Trinità, dell'incarnazione e dell'anima. Il 15 febbraio gli fu pertanto rinnovata la richiesta di abiura, alla quale Bruno rispose di «riconoscere dette otto propositioni per heretiche et essere pronto per detestarle et abiurarle in loco et tempo che piacerà al Santo Offitio», e il giorno seguente presentò un memoriale di cui non si conosce il contenuto.

Il 5 aprile Bruno presentò un nuovo scritto sulle otto proposizioni contestate, sul cui contenuto il Bellarmino si pronunciò il 24 agosto di fronte alla Congregazione, rilevando in esso un'effettiva volontà di ritrattazione, tranne che sulla questione del rapporto fra anima e corpo. Il 9 settembre la Congregazione si dichiara favorevole a ricevere l'abiura degli articoli sui quali Bruno aveva manifestata piena confessione, riservandosi di decidere l'applicazione della tortura per ottenere una piena confessione su altri punti contestati. Questi ultimi riguardano il suo rifiuto della Trinità, i suoi dubbi sull'incarnazione, la stessa umanizzazione di Cristo e l'identificazione dello Spirito Santo con l'anima del mondo, elemento essenziale del sistema filosofico di Giordano Bruno, incentrato nell'animazione universale che produce un'eterna e infinita creazione, nella quale rientra la concezione, incompatibile con la dottrina cristiana, dell'impossibilità dell'eternità delle anime individuali.

«L'applicazione della torura aveva effetto discriminante: se il suppliziato cedeva, diveniva senz'altro confesso; se reggeva con inflessibile animo, conseguiva una dimostrazione formale di innocenza, purgava cioè gli indizi, cancellando col proprio arduo e sofferto diniego la taccia infertagli dai dubbi testimoni. Non uno dei sei consultori [i consulenti dei giudici inquisitori] si mostrò contrario alla tortura».

Il 10 settembre Bruno è interrogato e si dichiara pronto ad abiurare ma il 16 settembre la Congregazione legge un suo memoriale - del quale non si conosce l'esatto contenuto - inviato al papa, in cui il filosofo rimettere in discussione tutte le proposizioni contestate. Gli venne allora intimata nuovamente l'abiura da formalizzare entro quaranta giorni, non essendo pervenuta la quale, il 17 novembre la Congregazione stabilisce di concludere il processo.

In attesa della sentenza Bruno, visitato in carcere il 21 dicembre e nuovamente invitato ad abiurare, risponde di non avere nulla da abiurare. Il decreto della Congregazione, riunita, presente il papa, il 20 gennaio 1600, riferisce dell'estremo tentativo di ottenere la ritrattazione operato dal generale domenicano Ippolito Maria Beccaria e dal vicario Paolo Isaresi, ai quali Bruno rispose «di non aver mai scritto o pronunciato proposizioni eretiche, che ma che gli erano state malamente estratte e opposte dai ministri del Sant'Uffizio. Perciò era pronto a dar ragione di ogni suo scritto e parola, difendondoli contro qualunque teologo; ai quali teologici non voleva sottomettersi ma soltanto alle determinazioni della santa Sede apostolica, se ve n'erano, nei suoi scritti o parole, o ai sacri canoni, se si trovassero in essi affermazioni contrarie ai suoi scritti e parole». Un ultimo scritto del Bruno, indirizzato al papa, fu aperto ma non fu letto.

Clemente VIII stabilì che si procedesse nella causa, pronunciando la sentenza e consegnando l'imputato al braccio secolare.

La sentenza di condanna

Non si possiede più l’originale della sentenza, ma una copia parziale destinata al Governatore di Roma. Nella casa del cardinale Ludovico Madruzzo, adiacente la chiesa di Sant'Agnese, in piazza Navona, i cardinali inquisitori Madruzzo, Santorio, Dezza, Pinelli, Berberi; Sfondrati, Sasso, Borghese, Arrigoni e Bellarmino sentenziarono:

«Essendo tu, fra Giordano [...] che tu avevi detto ch’era biastiema grande il dire che il pane si transustantii in carne etc et infra.

Le quali proposizioni ti furno presentate alli XVIII de gennaro MDXCIX nella congregatione de’ signori Prelati fatta nel Santo Offitio et assegnatoti il termine di sei giorni a deliberare et poi rispondere se volevi abiurare le dette proposizioni o no; et poi alli XXV dell’istesso mese [...] rispondesti che [...] eri disposto a revocarle; et poi immediatamente presentasti una scrittura indrizzata a Sua Santità et a noi [...] et successivamente, alli quattro del mese di febraro MDXCIX, fu ordinato che nuovamente ti proponessero le dette otto proposizioni, come in effetto ti furno proposte alli XV di detto mese [...] et dicesti all’hora di riconoscere dette otto proposizioni per eretiche et essere pronto per detestarle et abiurarle [...] ma poi, avendo tu dato altre scritture nell’atti del Santo Officio et dirette alla Santità di Nostro Signore et a Noi, dalle quali apparisce manifestamente che tu perseveravi pertinacemente negli suddetti tuoi errori.

Et essendosi avuto notitia che nel Santo Offitio di Vercelli eri stato denunziato, che mentre tu eri in Inghilterra eri tenuto per ateista et che avevi composto un libro di Trionfante bestia, ti fu alli diece del mese di settembre MDXCIX prefisso il termine di XL giorni a pentirti [...] non dimeno hai sempre perseverato pertinacemente et ostinatamente [...] siamo venuti all’infrascritta sententia.

[...] proferimo in questi scritti, dicemo, pronuntiamo, sentenziamo et dichiariamo te, fra Giordano Bruno predetto, essere eretico impenitente et ostinato [...] et come tale te degradiamo verbalmente et dechiariamo dover essere degradato, sì come ordiniamo et comandiamo che sii attualmente degradato da tutti gl’ordini ecclesiastici maggiori et minori [...] et dover essere scacciato, sì come ti scacciamo, dal foro nostro ecclesiastico et dalla nostra santa et immacolata Chiesa, della cui misericordia ti sei reso indegno; et dover esser rilasciato alla Corte secolare, sì come ti rilasciamo alla Corte di voi monsignor Governatore di Roma qui presente, per punirti delle debite pene, pregandolo però efficacemente che voglia mitigare il rigore delle leggi circa la pena della tua persona, che sia senza pericolo di morte o mutilatione di membro.

Di più, condanniamo, riprobamo et prohibemo tutti li sopradetti et altri tuoi libri et scritti come eretici et erronei et continenti molte eresie et errori, ordinando che tutti quelli che sin’hora si son havuti, et per l’avenire verranno in mano del Santo Offitio siano pubblicamente guasti et abbrugiati nella piazza di San Pietro, avanti le scale, et come tali che siano posti nell’Indice de’ libri prohibiti, sì come ordiniamo che si facci [...]

Finita di leggere la sentenza, scrive lo Schoppe, Bruno, rivolto ai suoi giudici, disse in tono minaccioso: «Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla».[13]

Al Governatore di Roma, il milanese monsignor Ferrante Taverna, che sarà nominato cardinale da Clemente VIII, fu dunque affidato il condannato a morte Giordano Bruno, perché se ne prendesse cura, evitandogli ogni «pericolo di morte o mutilazione di membro». Così, lo fece custodire nelle famigerate carceri di Tor di Nona.

Il rogo

Le carceri di Tor di Nona, situate alla sinistra del Tevere, di fronte a Castel Sant'Angelo, erano costituite dalla medievale torre Orsini e dagli edifici che vi si raggruppavano intorno. Furono trasformate cinquant'anni dopo in teatro dopo la costruzione delle "Carceri nuove" nella vicina via Giulia e il teatro fu a sua volta demolito alla fine dell'Ottocento per far posto ai muraglioni che fiancheggiano il fiume. Chiamate "la prigione del papa", la maggior parte dei reclusi veniva poi giustiziata nella vicina piazzetta che si apriva davanti al ponte Sant'Angelo; altri luoghi di supplizio erano piazza Navona e Campo de' Fiori.

Il 12 febbraio 1600, L' Avviso di Roma riportava che «hoggi credevamo veder una solennissima giustitia, et non si sa perché si sia restata, et era di un domenichino de Nola, heretico ostinatissimo, che mercoledì in casa del cardinal Madrucci sentenziarono come auttore di diverse enormi opinioni, nelle quali restò ostinatissimo, et ci sta tuttora, nonostante che ogni giorno vadano teologhi da lui».


Fu un rinvio di quattro giorni. Il giornale dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, chiamata a prelevare dal carcere di Tor di Nona i condannati per accompagnarli al rogo, registra il 17 febbraio che Bruno «esortato da' nostri fratelli con ogni carità, e fatti chiamare due Padri di san Domenico, due del Giesù, due della Chiesa Nuova e uno di san Girolamo, i quali con ogni affetto et con molta dottrina mostrandoli l'error suo, finalmente stette senpre nella sua maladetta ostinatione, aggirandosi il cervello e l’intelletto con mille errori e vanità. E tanto perseverò nella sua ostinatione, che da’ ministri di giustitia fu condotto in Campo di Fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu brusciato vivo, aconpagniato sempre dalla nostra Compagnia cantando le letanie, e li confortatori sino a l’ultimo punto confortandolo a lasciar la sua ostinatione, con la quale finalmente finì la sua misera et infelice vita».

Kaspar Schoppe che, oltre a esser stato presente alla lettura della sentenza, assistette anche al rogo, aggiunge che il supplizio fu allestito di fronte al Teatro di Pompeo - dunque non al centro della piazza, dove ora sorge il monumento al filosofo - e che «mentre veniva condotto al rogo e gli si mostrava, in punto di morte, l'immagine del Salvatore crocefisso, torvo in volto la respinse con disprezzo; e così arrostito miseramente morì, andando ad annunciare, io penso, a quegli altri mondi da lui immaginati, in che modo gli uomini blasfemi ed empi sogliono essere trattati dai Romani».

Anche l' Avviso di Roma ne diede notizia il 19 febbraio: «Giovedi mattina in Campo di Fiore fu abbruggiato vivo quello scelerato frate domenichino de Nola, di che si scrisse con le passate: heretico ostinatissimo, et havendo di suo capriccio formati diversi dogmi contro nostra fede, et in particolare contro la Santissima Vergine et Santi, volse ostinatamente morir in quelli lo scelerato; et diceva che moriva martire e volentieri, et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso. Ma hora egli se ne avede se diceva la verità».

L'anonimo cronista, oltre a non essere ben informato sul processo, non aveva evidentemente mai letto nulla di Giordano Bruno.

Conclusione

Gli storici che, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, hanno potuto esaminare gli atti, per quanto parziali, del processo, si sono posti il problema di valutare il comportamento di Bruno nelle diverse fasi dei due processi, veneziano e romano, dei motivi per i quali nel primo Bruno si era dichiarato pronto a rifiutare le sue dottrine, mentre nel secondo - dopo diverse incertezze - scelse alla fine l'"ostinata" difesa della sua filosofia.

Per Giovanni Gentile, fra gli altri, Bruno volle rivendicare il diritto alla libera ricerca filosofica di fronte alle asserzioni dogmatiche della religione: se è vero che di fronte al Tribunale di Venezia egli si mostrò disposto a piegarsi, fu perché quegli inquisitori non furono sufficientemente stringenti nel censurare le sue proposizioni: al Bruno dovette sembrare che una sua esteriore abiura avrebbe riguardato unicamente la propria figura esteriore di cristiano, lasciando intatta la sua filosofia, espressione di libera e razionale ricerca e di personale e interiore convinzione. L'Inquisizione di Roma, al contrario, avrebbe preteso di affermare l'incompatibilità dei dogmi del cattolicesimo rispetto alle libere affermazioni, espressione di un'intima convinzione intellettuale, della sua filosofia; l'abiura avrebbe significato per Bruno ben più di una formale e privata sottomissione, ma una pubblica sconfessione di tutta una vita dedicata alla libera ricerca, una pubblica rinuncia all'autonomia del pensiero.

Monsignor Angelo Mercati, curatore della pubblicazione del Sommario del processo romano - dopo aver giustificato la condanna a morte con il fatto che «la Chiesa, al pari almeno di altre legittime istituzioni, ha diritto e dovere di stabilire e proporre il credo e di legiferare nel suo campo con sanzioni» - rispondendo alle considerazioni di chi aveva voluto vedere in Bruno un "martire del libero pensiero", replicò che in realtà nel processo le accuse al Bruno furono in grande maggioranza di natura teologica e solo in minima parte di natura filosofica, sforzandosi di costruire altresì un negativo ritratto psicologico del filosofo, fino a sostenere i giudici scambiarono le manifestazioni «di perturbazione di mente e fors'anco di alterazione psichica» del Bruno, in «pervicacia e ostinazione» di eretico. In realtà, appare ben difficile che i giudici, negli otto anni che il filosofo fu detenuto nel palazzo del Sant'Uffizio, non si siano resi conto di una sua eventuale malattia mentale.

Antonio Corsano è invece il sostenitore della tesi, ripresa dal Firpo, di un Bruno fattosi sostenitore di una riforma religiosa che rinnovasse le strutture ecclesiastiche e favorisse finalmente la professione di una religione libera da infrastrutture dogmatiche e persecutorie: in tal modo si spiegherebbe anche il rilevante numero delle censure di natura teologica fattegli da chi la riforma cattolica riteneva fosse già stata fatta e occorresse ora difenderne i principi.

Una risposta certa ai diversi quesiti sul comportamento di Giordano Bruno, soprattutto di fronte a una prova così drammatica, non ci sarà mai. È sicuro che Bruno sapesse che il rifiuto di abiurare equivaleva alla condanna a morte, come sapesse anche che l'abiura gli avrebbe risparmiato sì la vita ma non la reclusione perpetua, e soprattutto avrebbe comportato la compromissione storica di rinnegatore di quella «nova filosofia» per la quale aveva speso l'intera vita. «Comprese di essere stato stretto fra due opzioni estreme: da un lato l'abiura e il carcere a vita, con l'"occultamento", la "depressione", la "sommersione" della Verità; dall'altro la morte. Scelse la morte, ma senza esserne stato "abbacinato", come si è scritto. Pur avendo cercato in tutti i modi di salvarsi, di vivere, si persuase che in quella situazione la morte era l'unica prospettiva rimasta aperta avanti al Mercurio, al messaggero degli dei, che ogni altra strada era stata, infine, chiusa, sbarrata. Decise di morire dopo otto anni di durissima lotta, in piena consapevolezza».

Giordano Bruno: Le sue opere principali


Il De umbris idearum

Nell’opera, la prima parte, la Triginta intentiones idearum, individua i modi con i quali si percepiscono le ombre, le immagini della realtà; la seconda, la Triginta conceptus umbrarum, individua l’ordine dell’universo, retto platonicamente dalle idee, e la terza parte è costituita da un trattato di mnemotecnica.

In quest'opera sono già espressi i principi essenziali della sua filosofia: «Uno solo è il corpo dell'Ente universale, uno solo è l'ordine, uno solo il governo, uno solo è il principio e una sola la fine, uno solo è il primo e uno solo è l'ultimo» e dunque ogni cosa ha eguale dignità rispetto a ciscun'altra e «una sola cosa è quella che definisce tutte le cose, uno solo è lo splendore della bellezza in tutte le cose, un solo fulgore luccica dalla moltitudine delle specie».

L’universo è un dunque un corpo unico, organicamente formato, con un preciso ordine che struttura ogni singola cosa e la connette con tutte le altre. Fondamento di quest’ordine sono le idee, principi eterni e immutabili, ogni singolo ente essendo imitazione, immagine, ombra della realtà ideale che la regge. Rispecchiando in se stessa la struttura dell’universo, la mente umana, che ha in sé non le idee, ma le ombre delle idee, può raggiungere la vera conoscenza, ossia le idee e il nesso che connette ogni cosa con tutte le altre, al di là della molteplicità degli elementi particolari e del loro mutare nel tempo. Si tratta allora di cercare di ottenere un metodo conoscitivo che colga la complessità del reale, fino alla struttura ideale che sostiene il tutto.

Tale mezzo è l'arte della memoria, il cui compito è di evitare la confusione generata dalla molteplicità delle immagini e di connettere le immagini delle cose con i concetti, rappresentando simbolicamente tutto il reale. «La natura» – scrive Bruno - «non permette il passaggio immediato da un estremo all’altro, ma con l’aiuto di ombre e poco alla volta, con ombre velate» così che «l’ombra prepara la vista alla luce. L’ombra tempra la luce», concetto tratto evidentemente dal platonico mito della caverna.


Dello stesso anno è il Cantus Circaeus, opera composta da due dialoghi: nel primo la maga Circe, rovesciando il noto mito narrato da Omero, mostra all'allieva Meri come rivelare la vera natura bestiale di esseri che hanno una forma umana; nel secondo, due allievi di Bruno, Borista ed Alberico, imparano le tecniche dell'arte della memoria insegnate dal maestro.

La trasformazione degli uomini in bestie non è dunque un capriccioso sopruso ma la ricomposizione della corrispondenza fra anima e corpo, fra essenza e apparenza, la restituzione del naturale aspetto di ciascun individuo, una corrispondenza che si è perduta nella decadenza dei tempi attuali. Pochissimi saranno gli esseri umani che, al termine della dimostrazione, manterranno l’aspetto originario: «di tanti uomini che prima potevamo vedere, solo tre o quattro sono rimasti tali e corrono tremanti a mettersi al sicuro. Di tutti gli altri, chi si rifugia nella caverna più vicina, chi vola sui rami degli alberi, chi si getta a precipizio nel vicino mare mentre altri, di indole più domestica, si avvicinano in fretta alla nostra casa»; ora sono stati privati delle armi terribili proprie dell'uomo, la lingua e la mano, con le quali avevano provocato la crisi del mondo.

Il secondo dialogo è un manuale di mnemotecnica, l'arte «che mostra la via e apre l'ingresso a massime invenzioni», ove in particolare Bruno mostra come memorizzare il dialogo precedente. Al testo si fa corrispondere uno scenario che viene via via suddiviso in un maggior numero di spazi, come un appartamento diviso in stanze i cui mobili e i vari oggetti lì contenuti sono le immagini corrispondenti ai concetti espressi nello scritto.

Il Candelaio

Ancora nel 1582 Bruno pubblica il Candelaio, una commedia in cinque atti in cui alla complessità del linguaggio, un insieme di latino, di toscano e di napoletano, corrisponde l’eccentricità della trama, fondata su tre storie parallele. Il candelaio Bonifacio, pur sposato con la bella Carubina, corteggia la cortigiana Vittoria, l’alchimista Bartolomeo si ostina a cercare inutilmente di trasformare i metalli in oro, il grammatico Manfurio si esprime in un linguaggio incomprensibile e il pittore Gioan Bernardo, insieme con una corte di servi e malfattori, si fa beffe di tutti e conquista Carubina.

In questo classico della letteratura italiana, appare un mondo assurdo, violento e corrotto, rappresentato con amara comicità, dove gli eventi si succedono in una trasformazione continua: «il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l'animo mi si aggrandisce, e me si magnifica l'intelletto» e nulla è «di sicuro, ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono».

Nel titolo della commedia Bruno definisce se stesso un accademico di nessuna accademia, ilare nella tristezza e triste nell'ilarità e si fa una sorta di autoritratto: «par che sempre sii in contemplazione delle pene dell'inferno [...] un che ride solo per far come fan gli altri: per lo più lo vedrete fastidito, restio e bizarro: non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d'ottant'anni, fantastico com'un cane chìha ricevuto mille spellicciate, pasciuto di cipolla»


Come occorre distinguere tra dottrine morali e filosofia naturale, così occorre distinguere tra teologi e filosofi: questi sanno che non esistono premi e punizioni in una vita futura, perché le anime, secondo Bruno, si reincarnano in corpi sempre diversi, mentre i teologi hanno imposto punizioni ed elargito premi allo scopo di far rispettare le buone norme del comportamento sociale.

De la causa, principio et uno: la Vita come materia infinita

I cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i principi della realtà naturale. Bruno lascia da parte il problema di Dio, del quale, come causa e principio della natura, non possiamo conoscere nulla attraverso il «lume naturale», perché esso «ascende sopra la natura» e si può pertanto conoscere Dio solo per «lume sopranaturale», ossia solo per fede.

Forma universale del mondo è l’anima del mondo, la cui prima e principale facoltà è l’intelletto universale il quale «empie il tutto, illumina l’universo e indirizza la natura a produrre le sue specie»: i pitagorici lo chiamano motore ed agitatore dell’universo, i platonici il fabbro del mondo, proprio perché forma la materia dal suo interno, e dunque è sua causa intrinseca, ma è anche causa estrinseca, dal momento che non si esaurisce nelle cose. L’intelletto è il «principio formale costitutivo de l’universo e di ciò che in quello si contiene» e la forma non è altro che il principio vitale, l’anima delle cose le quali, proprio perché tutte dotate di anima, non hanno imperfezione.

La materia non è in se stessa indifferenziata, un nulla, come hanno sostenuto tutti i filosofi, una bruta potenza, senza atto e senza perfezione, come direbbe Aristotele: questi considera l'atto la manifestazione esplicita della forma, non la forma implicita, errando, per Bruno, perché «l'essere espresso, sensibile ed esplicato, non è la principal raggion de l'attualità, ma è cosa consequente et effetto di quella»: così come la ragione della sostanza della materia legno non sta nell'essere, per esempio, un letto, ma nell'essere una sostanza e nell'avere una consistenza tale da poter essere qualunque cosa formata di legno. Anche se pensata senza una forma, non per questo la materia «come il ghiaccio è senza calore» ma semmai «come la pregnante è senza la sua prole, la quale la manda e la riscuote da sé [...] non viene a ricever le dimensioni come di fuora, ma a cacciarle come dal seno».

La materia è allora il secondo principio della natura, dalla quale ogni cosa è formata: «come nell’arte, variandosi in infinito le forme, è sempre una materia medesma che persevera sotto quella, come la forma dell’albore è una forma di tronco, poi di trave, poi di tavolo, poi di scabello, e così via discorrendo, tuttavolta l’esser legno sempre persevera; non altrimenti nella natura, variandosi in infinito e e succedendo l’una all’altra le forme, è sempre una medesma la materia». Essa è «potenza d’esser fatto, prodotto e creato», aspetto equivalente al principio formale che è potenza attiva, «potenza di fare, di produrre, di creare» e non può esserci l'un principio senza l’altro, sicché «il tutto secondo la sostanza è uno».

Discende da questa considerazione l'elemento fondamentale della filosofia bruniana: tutta la vita è materia, materia infinita. Scrive infatti che, sia in atto che in potenza, sia che che abbia un'estensione - sia cioè sostanza corporea - sia che non abbia estensione - e sia allora sostanza incorporea - è pur sempre materia, e «tutta la differenza depende dalla contrazione a l'essere corporea e non essere corporea [...] quella materia per essere attualmente tutto quel che può essere, ha tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni; e perché le ave tutte, non ne ha nessuna, perché quello che è tante cose diverse bisogna che non sia alcuna di quelle particolari. Conviene, a quello che è tutto, che escluda ogni essere particolare».

«È dunque l’universo uno, infinito, immobile; una è la possibilità assoluta, uno l’atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo et ottimo; il quale non deve poter essere compreso; e perciò infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato e per conseguenza immobile; questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto; non si genera perché non è altro essere che lui possa derivare o aspettare, atteso che abbia tutto l’essere; non si corrompe perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa; non può sminuire o crescere, atteso che è infinito, a cui non si può aggiungere, così è da cui non si può sottrarre, per ciò che lo infinito non ha parti proporzionabili».

Il De infinito, universo e mondi

Nel De infinito, universo e mondi Bruno riprende temi già affrontati nei dialoghi precedenti - la necessità di un accordo tra filosofi e teologi, perché «la fede si richiede per l'istituzione di rozzi popoli che denno esser governati», l'infinità dell'universo e l'esistenza di mondi infiniti, la mancanza di un centro in un universo infinito, che comporta un'ulteriore conseguenza, la scomparsa dell'antico, ipotizzato ordine gerarchico, la «vanissima fantasia» che riteneva che al centro vi fosse il «corpo più denso e crasso» e si ascendesse ai corpi più fini e divini. La concezione aristotelica è difesa ancora da quei dottori che hanno fede nella «fama de gli autori che gli son stati messi nelle mani», ma i filosofi moderni, che non hanno interesse a intendere quello che dicono gli altri, ma pensano con la loro testa, si sbarazzano di queste anticaglie e si avviano «con più sicuri passi alla cognizione della natura».

L'etica civile: lo Spaccio della bestia trionfante e la Cabala del cavallo pegaseo

Insieme con i successivi Eroici furori, lo Spaccio della bestia trionfante è costituito da tre dialoghi di argomento morale. Le bestie trionfanti sono i segni delle costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre «spacciarle», cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vecchi vizi che è tempo di sostituire con moderne virtù, occorre una nuova serie di valori cui l'uomo moderno possa e debba fare riferimento.

Occorre tornare alla sincerità, semplicità e alla verità, ribaltando le concezioni morali che si sono ormai imposte nel mondo, secondo le quali le opere e gli affetti eroici sono privi di valore, dove credere senza riflettere è sapienza, dove le imposture umane sono fatte passare per consigli divini, la perversione della legge naturale è considerata pietà religiosa, studiare è follia, l’onore è posto nelle ricchezze, la dignità nell’eleganza, la prudenza nella malizia, l’accortezza nel tradimento, il saper vivere nella finzione, la giustizia nella tirannia, il giudizio nella violenza.

Il cristianesimo è responsabile di questa crisi: già Paolo operò il rovesciamento dei valori naturali e ora la Riforma ha chiuso il ciclo: la ruota della storia, della vicissitudine del mondo, essendo giunta al suo punto più basso, può operare un nuovo e positivo rovesciamento dei valori.

Nella nuova gerarchia di valori il primo posto spetta alla verità, cui segue la prudenza, la caratteristica del saggio che, conosciuta la verità, ne trae le conseguenze con un comportamento adeguato. Al terzo posto Bruno inserisce la sofia, la ricerca della verità e dopo viene la legge, che disciplina il comportamento civile dell'uomo. Vengono poi la fortezza, la forza dell'animo, virtù interiore cui seguono virtù indirizzate agli altri, la filantropia e la magnanimità. È questa evidentemente un'etica che richiama i valori tradizionali dell'Umanesimo, cui Bruno non ha mai dato molta importanza; ma questo schema rigido è in realtà la premessa per le indicazioni di comportamento che Bruno prospetta nell'opera di poco successiva, Gli eroici furori.

Gli Eroici furori

Nei dieci dialoghi che compongono Gli eroici furori, pubblicati a Londra nel 1585, Bruno individua tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla conoscenza, quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa. Le due ultime tendenze sono espressione di un furore di poco valore, un «furore basso»; il desiderio di una vita volta alla contemplazione è l'espressione di un «furore eroico», con il quale l'anima, «rapita sopra l'orizzonte de gli affetti naturali [...] vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto».
Non si giunge a tale effetto con la preghiera, con atteggiamenti devozionali, con «aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani» ma, al contrario, con il «venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé più ch'egli medesmo esser non si possa, come quello che è anima delle anime, vita delle vite, essenza de le essenze». Una ricerca che Bruno assimila a una caccia, non la comune caccia ove il cacciatore ricerca e cattura le prede, ma quella in cui il cacciatore diviene esso stesso preda, come Atteone che, avendo visto la bellezza di Diana, si è fatto preda dei cani, i «pensieri de cose divine», che lo divorano «facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de li perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia, onde più non vegga come per forami e per foreste la sua Diana ma, avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l'aspetto de tutto l'orizonte. Di sorte che tutto vede come uno, non vede più distinzioni e numeri, che [...] fanno vedere e apprendere in confusione. Vede l'Anfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la monade, vera essenza de l'essere de tutti; e se no la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede ne la sua genitura, che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l'universo, il mondo».

La conoscenza della natura è lo scopo della scienza e della nostra vita stessa, che da questa scelta viene trasformata in un «furore eroico» che ci assimila alla perenne e tormentata «vicissitudine» in cui si esprime il principio che anima tutto l'universo.


Bruno compone diverse opere sulla magia, tutte pubblicate solo nel 1891: il De magia, le Theses de magia, un compendio del trattato precedente, il De magia mathematica, il De rerum principiis et elementis et causis e la Medicina lulliana, nella quale presume di aver trovato forme di applicazione della magia nella natura.

Giordano Bruno: La vita


Pochi giorni fa si è celebrato l'anniversario della morte del pensatore italiano, strappato alla vita per mano della chiesa cattolica. Ho voluto fare una ricerca su di lui, uno dei tanti che perì sul rogo in quanto pensatore, non mero seguace della folla.



E' forse maggiore la paura vostra
nel pronunciare la sentenza
della mia nel riceverla.

Non abbiamo ritratti certi di Bruno e non abbiamo tutte le sue opere; chi ha tentato di cancellarlo dalla storia, dopo avergli chiuso la bocca, alla lettera, perché con una mordacchia, ne ha disperso le ceneri ai quattro venti ed ha poi fatto in modo che di lui non ci fosse traccia o segno che ne riportasse alla luce la memoria nei secoli a venire.


Nato a Nola, in Campania, da un soldato di nome Giovanni Bruno, il suo vero nome era Filippo. Prese il nome di Giordano, in onore del frate Giordano Crispo, suo insegnante di metafisica, quando divenne frate domenicano al monastero di San Domenico, vicino a Napoli. Nel 1572 fu ordinato sacerdote.

Che egli non fosse entrato fra i domenicani per tutelare l’ortodossia della fede cattolica lo rivelò subito l’episodio – narrato dallo stesso Bruno al processo – nel quale fra’ Giordano, nel convento di San Domenico, buttò via le immagini dei santi in suo possesso, conservando solo il crocefisso e invitando un novizio che leggeva la Historia delle sette allegrezze della Madonna a gettar via quel libro, una modesta operetta devozionale, pubblicata a Firenze nel 1551, perifrasi di versi in latino di Bernardo di Chiaravalle, sostituendolo magari con lo studio della Vita de’ santi Padri di Domenico Cavalca. Episodio che, pur conosciuto dai superiori, non provocò sanzioni nei suoi confronti, ma che dimostra come il giovane Bruno fosse del tutto estraneo alle tematiche devozionali controriformistiche.

Dotato di memoria prodigiosa, si applicò nel campo della filosofia, attratto soprattutto dalle idee appena riscoperte di Platone e di Ermete Trismegisto.

Nel 1576 la sua indipendenza di pensiero e la sua insofferenza verso l'osservanza dei dogmi si manifesta apertamente: Bruno, discutendo di arianesimo, sostiene che le opinioni di Ario sono meno perniciose di quel che si ritiene, dichiarando che Ario «diceva che il Verbo non era creatore né cretura, ma medio intra il creatore e la creatura, come il verbo è mezzo tra il dicente e il detto, et però essere detto primogenito avanti tutte le creature, non dal quale ma per il quale si refferisce et ritorna ogni cosa all'ultimo fine, che è il Padre, essagerandomi sopra questo. Per il che fui tolto in sospetto e processato, tra le altre cose, forsi di questo ancora». Così riferì al processo dei suoi dubbi sulla Trinità, ammettendo di aver «dubitato circa il nome di persona del figliolo e del Spirito Santo, non intendendo queste due persone distinte dal Padre» ma considerando, neoplatonicamente, il Figlio l'intelletto e lo Spirito, pitagoricamente, l'amore del Padre o l'anima del mondo, non dunque persone o sostanze distinte, ma manifestazioni divine.

Dopo questo incidente si sbarazzò dei libri di Erasmo da Rotterdam e si allontanò da Napoli, raggiungendo Roma.

Sono anni di gravi disordini: a Roma sembra non farsi altro, scriveva il cronista marchigiano Gualtiero Gualtieri, che «rubare e ammazzare: molti gittati in Tevere, né di popolo solamente, ma i monsignori, i figli di magnati, messi al tormento del fuoco, e nipoti di cardinali erano levati dal mondo [...] i frati [...] lasciate le chiese e i conventi, correvano a questa vita esecranda» e ne incolpava il vecchio e debole papa Gregorio XIII.

Anche Bruno è accusato di aver ammazzato e gettato nel fiume un frate: scrive il bibliotecario Guillaume Cotin, il 7 dicembre 1585, che Bruno fuggì da Roma per «un omicidio commesso da un suo frère, per il quale egli è incolpato e in pericolo di vita, sia per le calunnie dei suoi inquisitori che, ignoranti come sono, non concepiscono la sua filosofia e lo accusano di eresia». Oltre all'accusa di omicidio, Bruno ebbe infatti notizia che nel convento napoletano avevano trovato suoi libri di opere di san Giovanni Crisostomo e di san Gerolamo annotati da Erasmo e che si sta istruendo contro di lui un processo d'eresia.

Abbandonando l'abito, si recò a Ginevra, dove diventò calvinista per un breve periodo, prima di essere scomunicato e costretto a riparare in Francia.

Rimase in Francia per sette anni, sotto la protezione di alcuni potenti mecenati. In quel periodo pubblicò venti opere, incluse alcune inerenti le tecniche mnemoniche, fra cui il trattato De umbris idearum e, nel 1584, la Cena de le Ceneri e De l'Infinito, Universo e Mondi.

Nella Cena difese le teorie di Copernico. Nell'Infinito sostenne che le stelle, che vediamo di notte sono simili al nostro Sole, che l'universo è infinito e contiene un numero similmente infinito di mondi, e che tutti sarebbero abitati da esseri intelligenti (vedi anche Equazione di Drake).

Nel 1586, dopo una violenta lite riguardo «uno strumento scientifico», lasciò anche la Francia alla volta della Germania, ma giunto ad Helmstadt fu presto scomunicato dai Luterani. Nel 1591 accettò l'invito del nobile Giovanni Mocenigo a recarsi a Venezia, affinché lo istruisse dell'arte della memoria e della magia. Da questi denunciato, fu prelevato alle tre di mattina da casa Mocenigo e incarcerato al Sant'uffizio di Venezia (dove abiurò) ed estradato a Roma nel 1593 per essere condannato al rogo. Se, infatti, l'Inquisizione veneziana fu alquanto mite, quella romana fu conosciuta sempre per la sua durezza.

Si è spesso sostenuto che Bruno sia stato bruciato per via della sua adesione alla teoria di Copernico, ma ciò non può essere affermato con certezza, poiché le sue idee in campo teologico erano sufficientemente eterodosse per una condanna da parte della Chiesa cattolica contemporanea, che lo processò piuttosto per docetismo. Pare che la condanna gli sia stata comminata in seguito alla sua affermazione «Cristo non era Dio ma un mago incredibilmente abile».

Tutte le sue opere furono messe all'Indice nel 1603 e bruciate.

martedì 19 febbraio 2008

Choc a Riad: "E' una strega decapitatela"


Scusate se ho tardato ad inserire questo post, ma sono dell'idea che debba essere comunque uno spunto di riflessione, di come le donne vengono trattate in paesi non così lontani da noi. Non voglio esprimermi troppo in quanto sono già stati fatti fiumi di parole in merito ad accadimenti di tale portata. Forse un silenzio vale più di molte parole, sopratutto quando uno rimani ancora una volta llibito di fronte alla crudeltà e cattiveria umana.

L'hanno picchiata a sangue
Analfabeta, ha siglato il verbale
con l'impronta del pollice

IBRAHIM REFAT
IL CAIRO
L’Arabia Saudita è di nuovo nell’occhio del ciclone per un altro caso di violazione dei diritti umani. Fawaza Falih, una donna analfabeta, condannata a morte due anni fa per stregoneria, rischia di essere decapitata. La sentenza potrebbe essere eseguita da un momento all’altro e l’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch, con sede a New York, si è appellata a re Abdullah affinché sospenda l’esecuzione del verdetto definito «assurdo e privo di fondamenti giuridici». La donna, residente in un piccolo paese nel Nord del regno, era stata arrestata nel 2005 con l’accusa di esercitare la stregoneria. Alcune persone l’avevano denunciata dicendo che aveva attirato influssi malefici su di loro. Un uomo aveva addirittura affermato di essere stato stregato fino a diventare impotente. Una donna le ha attribuito invece la responsabilità del suo divorzio.

Davanti ai giudici l’imputata aveva negato tutto. Allora la polizia religiosa - ufficialmente denominata «Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio», ma sinistramente nota fra i sauditi col nome di «mutaween» - si era incaricata di estorcere una confessione alla presunta strega. Per trentacinque giorni la donna era stata picchiata senza compassione, tanto che a un certo punto era stata ricoverata all’ospedale. Ma prima aveva dovuto mettere l’impronta del pollice, essendo analfabeta, su un verbale di confessione preparato dalla polizia in cui essa ammetteva di esercitare la magia nera, di uccidere animali per preparare le sue fatture e persino di comunicare con i Jenn (i demoni).

Ma in questo modo la poveretta aveva firmato la sua condanna a morte, dal momento che in quel regno medioevale che è l’Arabia Saudita, dove manca un codice penale scritto, esercitare la stregoneria va punito con la decapitazione. Durante l’udienza al processo in primo grado, nell’aprile del 2006, l’imputata ritrattò tutto, raccontando di aver subito violenza, ma il giudice emise ugualmente la sentenza alla pena capitale. Non aveva voluto sentire altri testimoni a sua discolpa e non acconsentì al suo avvocato di difenderla. Andò un po’ meglio nel processo di appello svolto poco dopo. I giudici avevano infatti annullato il verdetto tenendo conto che aveva ritrattato.

L’odissea di Fawaza però non era finita. Un altro tribunale, infatti, poco dopo ribaltò questa sentenza per motivi «di interesse pubblico», condannandola di nuovo alla pena capitale. L’associazione Human Rights Watch ha contestato il fatto che alla donna non è stato garantito un processo equo. La sentenza, contrariamente alle procedure in vigore nel resto del mondo per processi davanti alla Corte d’Assise, era stato emessa di un giudice monocratico. E per di più l’imputata era stata condannata per un reato non dimostrabile, appunto la stregoneria.

Ora si attende un atto di clemenza da parte di re Abdullah per salvare Fawaza dalla scimitarra del boia. Il sovrano è costretto spesso a intervenire per correggere gli eccessi di zelo (o di crudeltà) dei giudici del suo regno. Il mondo si ricorda ancora il caso della ragazza condannata a 200 scudisciate solo per il fatto aver essersi intrattenuta con un uomo estraneo, in macchina, senza tenere conto del fatto che lei fosse stata rapita e violentata da cinque uomini. Pena poi condonata dal re.

Non è andata così per un farmacista egiziano, un certo Mustafa Ibrahim, decapitato il 2 novembre scorso a Ar’ar nel Nord, per esercizio della magia.Kobra Najjar, iraniana di 44 anni, condannata dieci anni fa a otto anni di carcere e poi alla lapidazione per aver commesso adulterio. Dopo essersi sposata, fu costretta a prostituirsi dal marito per procurargli la droga. Sarà proprio un suo cliente ad uccidere lo sposo, ma lei venne accusata di essere complice del delitto nonché adultera. Sarà difficile che possa salvarsi.


La Stampa 16 Febbraio 2008

domenica 17 febbraio 2008

Pan di via della partenza + crema alle mele



Chissà quanti di voi si saranno chiesti cosa è questo pane degli elfi, il pane che in tutti i fantasy che si rispettino i protagonisti si portano con se per lunghi viaggi... (almeno io me lo sono chiesto!). Questo è un pane dolce... E anche se non fosse il vero pane degli elfi...Basta che sia pappabile!! Questa ricettina è stata presa dal libro " A tavola con gli hobbit "... Non l'ho ancora provata ma sembra molto buona!


Pan di via
(per 4 persone)

300 gr di farina
1 bustina di lievito per dolci
100 gr di zucchero
1 uovo intero
250 ml di latte
100 gr di miele
50 gr di burro
50 gr di panna fresca

Mescolate burro, miele, panna fino ad ottenere una crema soffice. Separate l'albume e il tuorlo e sbattete il tuorlo con il latte. Tenetene da parte poco per spennellare il pan di via prima della cottura. Unite il latte con il tuorlo alla farina e mescolate cercando di evitare i grumi. Aggiungete lo zucchero al composto di miele, panna e burro, poi il lievito e infine l'albume d'uovo montato a neve. Unire tutto e lavorare a pasta morbida. Tirare a sfoglia alta 3 mm con un mattarello e tagliate i lembas a triangoli o quadrotti, sistemarli in teglia su un foglio di carta da forno, tenendoli a 1 cm di distanza tra loro. Pennellate la superficie dei biscotti con uovo e latte, cuocete per 12 - 13 minuti in forno già caldo a 250 gradi. Servite freddi e, se non siete in viaggio, accompagnate i lembas con un po' di crema alle mele.


Crema alle mele

500 gr di crema pasticcera soda e fredda
250 gr di polpa di mele cotte
1 cucchiaio di idromele (facoltativo)
1 pizzico di cannella (facoltativo)

Sbucciate le mele, tagliatele a pezzetti e mettetele a cuocere in un pentolino con poca acqua. Quando saranno diventate morbide toglietele dall'acqua di cottura e frullatele o schiacciatele con una forchetta. Incorporate alla crema pasticcera fredda la polpa di mele fredda, mescolando con delicatezza. Volendo si può aromatizzare la crema con un cucchiaio di idromele o con della cannella. Questa crema e ottima dentro le brioche tiepide appena sfornate!

sabato 16 febbraio 2008

Il Cervo bianco: Leggende


Varie sono le leggende sul cervo bianco, noto come figura molto importante in tutta europa sin da epoche remote.
Cercherò di condensare varie storie su questa straordinaria creatura, in particolare due, una del ciclo arturiano e una dell'est europeo, ma se qualcuno di voi ne sapesse di più (e sarà facile visto che a parte questo non so nulla dell'argomento!) prego, fatevi sotto!



"The Wedding of Sir Gawain and Dame Ragnell", risalente al periodo che va dal XIV al XV secolo d.C.


Sulle pagine di questo antico testo leggiamo che Artù, durante una battuta di caccia, si imbatte in un favoloso cervo bianco, che nelle leggende celtiche è spesso preludio di fantastiche avventure nell’Altromondo.
Affascinato dalla sua bellezza, egli lo insegue a lungo e quando finalmente riesce a raggiungerlo, lo uccide.
In quell’istante, però, un cavaliere dalla sfarzosa armatura gli appare dinnanzi e, rivolgendosi a lui in maniera aggressiva, lo rimprovera aspramente per aver concesso a Gawain alcune terre che invece erano di sua proprietà. Il misterioso uomo, che dice di chiamarsi Gromer Somer Jour, minaccia di morte il Re per questo oltraggio, ma poco prima di mozzargli la testa decide di offrirgli la possibilità di riscattarsi.

Se infatti Artù, trascorso un anno esatto, si presenterà nello stesso luogo dell’incontro con la risposta ad una misteriosa domanda postagli dal suo avversario, potrà avere salva la vita.
La domanda del cavaliere è “Qual è la cosa che la Donna desidera di più?”

Il Re accetta il compromesso e, terminata la caccia, torna al suo castello. Nonostante cerchi di non far trapelare i suoi pensieri, Gawain si accorge della sua preoccupazione e gli chiede quale mai possa esserne il motivo.
Artù risponde raccontandogli la sua avventura nella foresta e il timore di non riuscire a trovare la vera soluzione all’enigma, così il nipote decide di aiutarlo.
Insieme partono all’alba, prendendo direzioni diverse per porre la domanda a più donne possibili. Queste, però, rispondono dicendo che desiderano abiti lussuosi, un uomo valoroso che le sposi, oppure denaro e piccole soddisfazioni materiali; tutte cose che non convincono i due cavalieri.

Intanto l’anno trascorre velocemente e il Re, seppur abbia riempito due grossi libri con le risposte di tutte donne del regno, non ne ha ancora trovata una che sia veramente soddisfacente.
Sulla via che conduce al luogo dell’incontro, in cui Gromer Somer Jour lo attende, egli incontra una Dama che cavalca un mulo, con un liuto appeso in spalla.

La donna, di nome Ragnell, è davvero terrificante, indescrivibilmente brutta, con la faccia tutta rossa, i denti gialli e storti, le guance enormi, gli occhi simili a quelli di un gufo e il corpo completamente deformato.
Ella dichiara che nessuna delle risposte che egli porta con sé è quella giusta, perché l’unica che conosce quella esatta è lei. Tuttavia gliela comunicherà volentieri, a patto che egli le prometta di recarla in moglie al suo caro Gawain, in cambio del qual gesto potrà avere salva la vita.
Indeciso sul da farsi, data la tremenda bruttezza della Dama, Artù torna di corsa al castello per confidare a Gawain l’accaduto.

Il giovane e splendido combattente accetta senza esitazione di sposare Ragnell, nonostante il suo lubrico aspetto; così il Re, ripresa la strada per il bosco, raggiunge la Dama per riferirle la decisione e ricevere la risposta.
Ragnell, allora, gli rivela che la cosa che la Donna desidera di più è la Sovranità. Il riconoscimento completo della sua sacra ed innata Libertà.

Recatosi da Gromer Somer Jour, Artù risponde alla sua domanda, così l’uomo lo risparmia.

Di ritorno al castello vengono subito messi in atto i preparativi per le nozze, che la Sposa desidera ricchi di cerimonie e festeggiamenti, perché tutti possano conoscere e vedere con i propri occhi qual è stata la scelta di Gawain.
Dopo il matrimonio i due sposi si ritirano nelle loro stanze e Ragnell chiede gentilmente a Gawain di darle un bacio.
Il giovane non esita un momento e, anzi, dice alla sua sposa che non farà solo questo, ma adempierà pienamente al suo dovere di marito, giacendo amorevolmente con lei. Ma non appena pronuncia queste parole, voltandosi verso la Donna, scopre che al posto della tremenda Dama Ripugnante vi è la fanciulla più bella mai vista sulla Terra.

Sorridendo al cavaliere, Ragnell gli svela di essere stata vittima di un incantesimo, una maledizione terribile che si sarebbe spezzata soltanto quando un uomo fosse riuscito a guardare oltre la sua bruttezza e l’avrebbe sposata.
L’incantesimo però non è ancora del tutto spezzato e la fanciulla dice che solo per una metà del giorno potrà essere così bella, mentre per l’altra metà tornerà ad essere la Dama Ripugnante.
Spetta a Gawain decidere se la vorrà bella di notte, tra le morbide coperte, oppure di giorno, di fronte a tutta la corte; ma il cavaliere, dopo averci riflettuto, lascia a lei la libertà di scelta, l’unica che può scegliere per se stessa.

A tali parole la splendida Dama esulta raggiante, poiché questa era la risposta che come d’incanto avrebbe rotto definitivamente il maleficio.
Riacquistata la sua sacra Libertà, Ragnell potrà rimanere sempre bella, come ella stessa desidera. E la sua Sovranità investirà dolcemente Gawain fino alla fine dei suoi giorni.


Leggenda dell'est europeo


Facevano parte di una tribù avventurosa proveniente dal Turkestan tre condottieri, tre fratelli, particolarmente interessati all'Ovest che, secondo una leggenda, si muovevano sulla scia di un mitico cervo bianco che volevano catturare per il loro desco. Senonché il cervo non si lasciò mai né prendere né uccidere, guidando questo piccolo popolo dalla mattina alla sera, finché scomparve definitivamente quando la tribù ebbe raggiunto una vallata ubertosa,particolarmente attraente per bestiame ed esseri umani, situata tra due fiumi: Danubio e Tisza. Il possesso di questo territorio, geograficamente nel centro dell'Europa, non fu facile, ci vollero astuzia e arti belliche. Due dei tre fratelli che si chiamavano, sempre secondo la leggenda, Hunor e Magyar, si
sarebbero accontentati di questa buona sistemazione, ma il terzo fratello non si ritenne soddisfatto della nuova ricchezza acquisita e preferì spingere sé e la sua famiglia sempre più verso nord, sempre seguendo il cervo bianco nuovamente apparso. Arrivati a un punto dove furono sopraffatti dalla fame, dalla stanchezza, dal gelo, dalla neve si accasciarono disperati e pensarono che sarebbero morti, ma riuscirono a sopravvivere e, sempre secondo la leggenda, furono i pionieri dell'attuale Lapponia. Si dice che da allora, in memoria di quella vicenda, il cervo bianco riappaia in quei luoghi due volte ogni anno, trainando una carrozza scintillante nella quale siede una donna stupenda coperta di pietre preziose e circondata da un alone con i colori dell'arcobaleno; nacque così l'immagine poetica dell'Aurora Boreale.


Altre piccole notizie

Considerato ermafrodita, per i cristiani simboleggia il Cristo, la leggenda di Sant’Eustachio racconta che questi, un tempo pagano, fu convertito da un'apparizione miracolosa del Cristo in
forma di cervo durante una battuta di caccia.

Il Cervo bianco è una delle raffigurazioni di Merlino il Druido.

E' una creatura ‘mistica’ considerata dagli antichi celti messaggero dell’aldila’. Il cervo di pelle chiara è simbolo di purezza al pari dell’unicorno.

Secondo la leggenda di Artù, poi, è una creatura impossibile da catturare. La ricerca dell'animale da parte di Re Artù rappresenta infatti la ricerca di spitualità dell'Uomo.