giovedì 21 febbraio 2008

Giordano Bruno: Le sue opere principali


Il De umbris idearum

Nell’opera, la prima parte, la Triginta intentiones idearum, individua i modi con i quali si percepiscono le ombre, le immagini della realtà; la seconda, la Triginta conceptus umbrarum, individua l’ordine dell’universo, retto platonicamente dalle idee, e la terza parte è costituita da un trattato di mnemotecnica.

In quest'opera sono già espressi i principi essenziali della sua filosofia: «Uno solo è il corpo dell'Ente universale, uno solo è l'ordine, uno solo il governo, uno solo è il principio e una sola la fine, uno solo è il primo e uno solo è l'ultimo» e dunque ogni cosa ha eguale dignità rispetto a ciscun'altra e «una sola cosa è quella che definisce tutte le cose, uno solo è lo splendore della bellezza in tutte le cose, un solo fulgore luccica dalla moltitudine delle specie».

L’universo è un dunque un corpo unico, organicamente formato, con un preciso ordine che struttura ogni singola cosa e la connette con tutte le altre. Fondamento di quest’ordine sono le idee, principi eterni e immutabili, ogni singolo ente essendo imitazione, immagine, ombra della realtà ideale che la regge. Rispecchiando in se stessa la struttura dell’universo, la mente umana, che ha in sé non le idee, ma le ombre delle idee, può raggiungere la vera conoscenza, ossia le idee e il nesso che connette ogni cosa con tutte le altre, al di là della molteplicità degli elementi particolari e del loro mutare nel tempo. Si tratta allora di cercare di ottenere un metodo conoscitivo che colga la complessità del reale, fino alla struttura ideale che sostiene il tutto.

Tale mezzo è l'arte della memoria, il cui compito è di evitare la confusione generata dalla molteplicità delle immagini e di connettere le immagini delle cose con i concetti, rappresentando simbolicamente tutto il reale. «La natura» – scrive Bruno - «non permette il passaggio immediato da un estremo all’altro, ma con l’aiuto di ombre e poco alla volta, con ombre velate» così che «l’ombra prepara la vista alla luce. L’ombra tempra la luce», concetto tratto evidentemente dal platonico mito della caverna.


Dello stesso anno è il Cantus Circaeus, opera composta da due dialoghi: nel primo la maga Circe, rovesciando il noto mito narrato da Omero, mostra all'allieva Meri come rivelare la vera natura bestiale di esseri che hanno una forma umana; nel secondo, due allievi di Bruno, Borista ed Alberico, imparano le tecniche dell'arte della memoria insegnate dal maestro.

La trasformazione degli uomini in bestie non è dunque un capriccioso sopruso ma la ricomposizione della corrispondenza fra anima e corpo, fra essenza e apparenza, la restituzione del naturale aspetto di ciascun individuo, una corrispondenza che si è perduta nella decadenza dei tempi attuali. Pochissimi saranno gli esseri umani che, al termine della dimostrazione, manterranno l’aspetto originario: «di tanti uomini che prima potevamo vedere, solo tre o quattro sono rimasti tali e corrono tremanti a mettersi al sicuro. Di tutti gli altri, chi si rifugia nella caverna più vicina, chi vola sui rami degli alberi, chi si getta a precipizio nel vicino mare mentre altri, di indole più domestica, si avvicinano in fretta alla nostra casa»; ora sono stati privati delle armi terribili proprie dell'uomo, la lingua e la mano, con le quali avevano provocato la crisi del mondo.

Il secondo dialogo è un manuale di mnemotecnica, l'arte «che mostra la via e apre l'ingresso a massime invenzioni», ove in particolare Bruno mostra come memorizzare il dialogo precedente. Al testo si fa corrispondere uno scenario che viene via via suddiviso in un maggior numero di spazi, come un appartamento diviso in stanze i cui mobili e i vari oggetti lì contenuti sono le immagini corrispondenti ai concetti espressi nello scritto.

Il Candelaio

Ancora nel 1582 Bruno pubblica il Candelaio, una commedia in cinque atti in cui alla complessità del linguaggio, un insieme di latino, di toscano e di napoletano, corrisponde l’eccentricità della trama, fondata su tre storie parallele. Il candelaio Bonifacio, pur sposato con la bella Carubina, corteggia la cortigiana Vittoria, l’alchimista Bartolomeo si ostina a cercare inutilmente di trasformare i metalli in oro, il grammatico Manfurio si esprime in un linguaggio incomprensibile e il pittore Gioan Bernardo, insieme con una corte di servi e malfattori, si fa beffe di tutti e conquista Carubina.

In questo classico della letteratura italiana, appare un mondo assurdo, violento e corrotto, rappresentato con amara comicità, dove gli eventi si succedono in una trasformazione continua: «il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l'animo mi si aggrandisce, e me si magnifica l'intelletto» e nulla è «di sicuro, ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono».

Nel titolo della commedia Bruno definisce se stesso un accademico di nessuna accademia, ilare nella tristezza e triste nell'ilarità e si fa una sorta di autoritratto: «par che sempre sii in contemplazione delle pene dell'inferno [...] un che ride solo per far come fan gli altri: per lo più lo vedrete fastidito, restio e bizarro: non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d'ottant'anni, fantastico com'un cane chìha ricevuto mille spellicciate, pasciuto di cipolla»


Come occorre distinguere tra dottrine morali e filosofia naturale, così occorre distinguere tra teologi e filosofi: questi sanno che non esistono premi e punizioni in una vita futura, perché le anime, secondo Bruno, si reincarnano in corpi sempre diversi, mentre i teologi hanno imposto punizioni ed elargito premi allo scopo di far rispettare le buone norme del comportamento sociale.

De la causa, principio et uno: la Vita come materia infinita

I cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i principi della realtà naturale. Bruno lascia da parte il problema di Dio, del quale, come causa e principio della natura, non possiamo conoscere nulla attraverso il «lume naturale», perché esso «ascende sopra la natura» e si può pertanto conoscere Dio solo per «lume sopranaturale», ossia solo per fede.

Forma universale del mondo è l’anima del mondo, la cui prima e principale facoltà è l’intelletto universale il quale «empie il tutto, illumina l’universo e indirizza la natura a produrre le sue specie»: i pitagorici lo chiamano motore ed agitatore dell’universo, i platonici il fabbro del mondo, proprio perché forma la materia dal suo interno, e dunque è sua causa intrinseca, ma è anche causa estrinseca, dal momento che non si esaurisce nelle cose. L’intelletto è il «principio formale costitutivo de l’universo e di ciò che in quello si contiene» e la forma non è altro che il principio vitale, l’anima delle cose le quali, proprio perché tutte dotate di anima, non hanno imperfezione.

La materia non è in se stessa indifferenziata, un nulla, come hanno sostenuto tutti i filosofi, una bruta potenza, senza atto e senza perfezione, come direbbe Aristotele: questi considera l'atto la manifestazione esplicita della forma, non la forma implicita, errando, per Bruno, perché «l'essere espresso, sensibile ed esplicato, non è la principal raggion de l'attualità, ma è cosa consequente et effetto di quella»: così come la ragione della sostanza della materia legno non sta nell'essere, per esempio, un letto, ma nell'essere una sostanza e nell'avere una consistenza tale da poter essere qualunque cosa formata di legno. Anche se pensata senza una forma, non per questo la materia «come il ghiaccio è senza calore» ma semmai «come la pregnante è senza la sua prole, la quale la manda e la riscuote da sé [...] non viene a ricever le dimensioni come di fuora, ma a cacciarle come dal seno».

La materia è allora il secondo principio della natura, dalla quale ogni cosa è formata: «come nell’arte, variandosi in infinito le forme, è sempre una materia medesma che persevera sotto quella, come la forma dell’albore è una forma di tronco, poi di trave, poi di tavolo, poi di scabello, e così via discorrendo, tuttavolta l’esser legno sempre persevera; non altrimenti nella natura, variandosi in infinito e e succedendo l’una all’altra le forme, è sempre una medesma la materia». Essa è «potenza d’esser fatto, prodotto e creato», aspetto equivalente al principio formale che è potenza attiva, «potenza di fare, di produrre, di creare» e non può esserci l'un principio senza l’altro, sicché «il tutto secondo la sostanza è uno».

Discende da questa considerazione l'elemento fondamentale della filosofia bruniana: tutta la vita è materia, materia infinita. Scrive infatti che, sia in atto che in potenza, sia che che abbia un'estensione - sia cioè sostanza corporea - sia che non abbia estensione - e sia allora sostanza incorporea - è pur sempre materia, e «tutta la differenza depende dalla contrazione a l'essere corporea e non essere corporea [...] quella materia per essere attualmente tutto quel che può essere, ha tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni; e perché le ave tutte, non ne ha nessuna, perché quello che è tante cose diverse bisogna che non sia alcuna di quelle particolari. Conviene, a quello che è tutto, che escluda ogni essere particolare».

«È dunque l’universo uno, infinito, immobile; una è la possibilità assoluta, uno l’atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo et ottimo; il quale non deve poter essere compreso; e perciò infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato e per conseguenza immobile; questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto; non si genera perché non è altro essere che lui possa derivare o aspettare, atteso che abbia tutto l’essere; non si corrompe perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa; non può sminuire o crescere, atteso che è infinito, a cui non si può aggiungere, così è da cui non si può sottrarre, per ciò che lo infinito non ha parti proporzionabili».

Il De infinito, universo e mondi

Nel De infinito, universo e mondi Bruno riprende temi già affrontati nei dialoghi precedenti - la necessità di un accordo tra filosofi e teologi, perché «la fede si richiede per l'istituzione di rozzi popoli che denno esser governati», l'infinità dell'universo e l'esistenza di mondi infiniti, la mancanza di un centro in un universo infinito, che comporta un'ulteriore conseguenza, la scomparsa dell'antico, ipotizzato ordine gerarchico, la «vanissima fantasia» che riteneva che al centro vi fosse il «corpo più denso e crasso» e si ascendesse ai corpi più fini e divini. La concezione aristotelica è difesa ancora da quei dottori che hanno fede nella «fama de gli autori che gli son stati messi nelle mani», ma i filosofi moderni, che non hanno interesse a intendere quello che dicono gli altri, ma pensano con la loro testa, si sbarazzano di queste anticaglie e si avviano «con più sicuri passi alla cognizione della natura».

L'etica civile: lo Spaccio della bestia trionfante e la Cabala del cavallo pegaseo

Insieme con i successivi Eroici furori, lo Spaccio della bestia trionfante è costituito da tre dialoghi di argomento morale. Le bestie trionfanti sono i segni delle costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre «spacciarle», cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vecchi vizi che è tempo di sostituire con moderne virtù, occorre una nuova serie di valori cui l'uomo moderno possa e debba fare riferimento.

Occorre tornare alla sincerità, semplicità e alla verità, ribaltando le concezioni morali che si sono ormai imposte nel mondo, secondo le quali le opere e gli affetti eroici sono privi di valore, dove credere senza riflettere è sapienza, dove le imposture umane sono fatte passare per consigli divini, la perversione della legge naturale è considerata pietà religiosa, studiare è follia, l’onore è posto nelle ricchezze, la dignità nell’eleganza, la prudenza nella malizia, l’accortezza nel tradimento, il saper vivere nella finzione, la giustizia nella tirannia, il giudizio nella violenza.

Il cristianesimo è responsabile di questa crisi: già Paolo operò il rovesciamento dei valori naturali e ora la Riforma ha chiuso il ciclo: la ruota della storia, della vicissitudine del mondo, essendo giunta al suo punto più basso, può operare un nuovo e positivo rovesciamento dei valori.

Nella nuova gerarchia di valori il primo posto spetta alla verità, cui segue la prudenza, la caratteristica del saggio che, conosciuta la verità, ne trae le conseguenze con un comportamento adeguato. Al terzo posto Bruno inserisce la sofia, la ricerca della verità e dopo viene la legge, che disciplina il comportamento civile dell'uomo. Vengono poi la fortezza, la forza dell'animo, virtù interiore cui seguono virtù indirizzate agli altri, la filantropia e la magnanimità. È questa evidentemente un'etica che richiama i valori tradizionali dell'Umanesimo, cui Bruno non ha mai dato molta importanza; ma questo schema rigido è in realtà la premessa per le indicazioni di comportamento che Bruno prospetta nell'opera di poco successiva, Gli eroici furori.

Gli Eroici furori

Nei dieci dialoghi che compongono Gli eroici furori, pubblicati a Londra nel 1585, Bruno individua tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla conoscenza, quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa. Le due ultime tendenze sono espressione di un furore di poco valore, un «furore basso»; il desiderio di una vita volta alla contemplazione è l'espressione di un «furore eroico», con il quale l'anima, «rapita sopra l'orizzonte de gli affetti naturali [...] vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto».
Non si giunge a tale effetto con la preghiera, con atteggiamenti devozionali, con «aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani» ma, al contrario, con il «venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé più ch'egli medesmo esser non si possa, come quello che è anima delle anime, vita delle vite, essenza de le essenze». Una ricerca che Bruno assimila a una caccia, non la comune caccia ove il cacciatore ricerca e cattura le prede, ma quella in cui il cacciatore diviene esso stesso preda, come Atteone che, avendo visto la bellezza di Diana, si è fatto preda dei cani, i «pensieri de cose divine», che lo divorano «facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de li perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia, onde più non vegga come per forami e per foreste la sua Diana ma, avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l'aspetto de tutto l'orizonte. Di sorte che tutto vede come uno, non vede più distinzioni e numeri, che [...] fanno vedere e apprendere in confusione. Vede l'Anfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la monade, vera essenza de l'essere de tutti; e se no la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede ne la sua genitura, che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l'universo, il mondo».

La conoscenza della natura è lo scopo della scienza e della nostra vita stessa, che da questa scelta viene trasformata in un «furore eroico» che ci assimila alla perenne e tormentata «vicissitudine» in cui si esprime il principio che anima tutto l'universo.


Bruno compone diverse opere sulla magia, tutte pubblicate solo nel 1891: il De magia, le Theses de magia, un compendio del trattato precedente, il De magia mathematica, il De rerum principiis et elementis et causis e la Medicina lulliana, nella quale presume di aver trovato forme di applicazione della magia nella natura.

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